Lo spettacolo del giovane artista belga, ricco di spunti, riflessioni e rimandi, racconta il complesso mondo virtuale in prima nazionale nel festival napoletano che lo produce.
La scena finale è illuminante. Un gran brusio, rumore, suono, il plurimo vociare della comunicazione mediata, il mondo virtuale, internet, video. Al centro lei, donna di colore, nella sua tipica veste africana contaminata da questo mondo di fili e cavi. L'indubbio ossimoro della paventata libertà comunicativa dei nuovi media, dove l'iperconnessione confluisce nell'assoluta confusione, sfiora la totale assenza di comunicazione. Con questa immagine si chiude lo spettacolo, inserito nel Napoli Teatro Festival, Black clouds, ultima creazione di Fabrice Murgia, regista già premiato dal leone d'argento nella Biennale Teatro 2014, realizzata, da autore e regista, proprio per questo Festival che è tra i suoi produttori. Una prima nazionale dunque del giovane artista, trentenne, belga, che fa sentire a livello internazionale la sua presenza e che da quest'anno, a partire da luglio, diventa anche direttore del Teatro Nazionale Belga.
Lo spettacolo vive in sezioni, cadenzate da titoli che rimandano ad "articoli" fondamentali per il mondo informatico, perché è di questo mondo che tratta, con un taglio critico. Il punto chiaro è capire se è vero che internet rende più liberi, più informati, più partecipi e l'autore e regista ne propone varie possibili letture. Gli spunti sono tanti, forse troppi tutti insieme, ma è indubbio che Murgia apre il mondo del teatro a una dimensione che sa di attuale. Le sfaccettature del rapporto tra realtà, comunicazione, sentimento vivono in alcune figure che si compongono durante lo spettacolo tra colori, immagini, livelli diversi dello spazio scenico. Ci sono volti noti e storie simboliche di questo mondo.
L'inizio ruota sulla figura di Aaron Swartz, suicida a 26 anni, un mese prima del processo che lo attende, schiacciato dal sistema che lo vuole punire con 35 anni di carcere per aver commesso il crimine di diffondere documenti normalmente accessibili a pochi. Forzando un po' il limite tra teatro e realtà la storia di questo genio dell'informatica viene raccontata a bordo palcoscenico da una donna che si dichiara sua madre (Valèrie Bauchau) accompagnata da una traduttrice in italiano (lo spettacolo è in lingua francese). Una scelta drammaturgica che da una parte stupisce perché osa proporre una voce poco comoda di una madre che perde un figlio, ma dall'altra usa un tono prevalentemente documentaristico, ricco di particolari (certo sempre meglio del patetico) che, però, rischia di far diventare retorica la scelta di questo personaggio. Fatto sta che la legge Sopa (con cui il governo statunitense si prometteva di punire chi viola il copyright) non viene approvata e fatto sta che, suggerisce la donna, bisogna far conosce ai propri figli il codice informatico, ed è questo l'unico modo per essere liberi e avere accesso alla vera informazione. Lo spettacolo viene dedicato al giovane e generoso talento informatico.
Le altre sezioni sviluppano le azioni sul palcoscenico. Nell'articolo II sviscera il concetto "i computer possono migliorare la vita". Sono in scena ancora parole, discorsi quelli proposti di due personaggi noti a confronto: Steve Jobs, il padre del Mac, da una parte e Thomas Sankara, Che Guevara africano, primo presidente del Burkina Faso, dall'altra. Era il 1984 e mentre il primo racconta che il computer è un medium attraverso cui far passare pensieri e sentimenti da condividere, l'altro richiama l'attenzione su un paese che si rifiuta di morire di ignoranza, fame, sete. Da una parte il Sud del mondo, con il suo desiderio di riscatto, dall'altra il desiderio di dominio della vita, dell'eterno. Da qui parte un ritmato e non consequenziale definirsi di 4 personaggi che raccontano insieme il Sud e il Nord del mondo del comunicare. La figura della donna nera, solenne, fuori dal tempo nel suo fare da regina, si propone in un vestito dal sapore africano ma corrotto da fili e cavi, dal posto in cui vive, cioè una discarica di computer e televisori. Padroneggia da vate il suo spazio, corrispondente al palcoscenico, con la poesia di parole espresse nel suo dialetto e la sua tosse da polmoni invasi dal fumo, mentre racconta dei bambini che raccolgono rame e incendiano la plastica. Poi c'è l'uomo bianco che vuole diventare e sopravvivere come macchina umana, dal volto dello storico E.T. Il suo spazio è sospeso, come su uno schermo nello spazio teatrale e non mancano le immagini dello storico film. L'uomo bianco, morto, finisce poi nello spazio in basso, della discarica, tra le braccia della donna nera. Un cerchio che si chiude.
Una donna-fioraia e un uomo africano parlano d'amore su internet e di scena in scena raccontano il loro loro incontro, il loro conquistarsi. Il riferimento è al turismo sessuale nel Senegal, una strada di sopravvivenza. Il romanticismo ha un solo vero scopo: soldi, per abbassare il debito pubblico che l'occidente deve al Sud del mondo, in cambio di sesso. La scena che chiarisce tutto è quella del letto in cui lui va via, senza alcuna poesia e lei si deprime per aver vissuto amore per il denaro.
Uno spettacolo articolato e con più piani, come sottolinea anche il regista che, nella sua lunga nota, fa riferimento a precedenti esperienze teatrali, studi, approfondimenti di tematiche scottanti che vanno dalle frodi ivoriane degli hacking, al web profondo con il circa triliardo di pagine non indicizzate, alla città di Saly in cui l'economia è basata sul turismo sessuale. Un percorso che nello spettacolo diventa cura per ogni particolare e passaggio. Niente sembra casuale. I tanti elementi, rimandi, riecheggi lo evidenziano. Non sarà un caso che il ragazzo-computer quando muore scrive sul suo schermo da computer proprio a sua madre, riecheggiando la storia di Swartz. Ma forse questa densità richiama l'idea di uno spettatore che proprio come un utente di internet è sobbarcato di informazioni, segnali, che rischiano di diventare confusioni, che nello svelare disvelano. E si torna alla scena finale, una chiave in cui trovare il senso, della babele di dimensioni e vite che è la comunicazione oggi.
Il teatro Politeama di Napoli che ha ospitato la prima nazionale e internazionale, produzione del Napoli Teatro Festival, non è molto gremito. Molte persone sono francofone, ci sono anche attori di altri spettacoli belgi del festival. I napoletani invece sono pochi, molti del settore teatrale, ma tutti colpiti dai colori che acquista questo spettacolo. Bravi gli attori: Valérie Bauchau, Fatou Hane, El Hadji Abdou Rahmane Ndiaye e François Sauveur.